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LA PESTE IN TUCIDIDE ED IN LUCREZIONellantichit la peste fu sicuramente il peggior male di cui gli uomini avessero esperienza. Forse proprio per questo motivo che si andata sviluppando quella che si potrebbe definire una letteratura della peste, la quale prende le mosse dallo storico greco Tucidide, che descrisse la peste di Atene del 431-430 a. C. e che diede lo spunto al poeta latino Lucrezio, e, passando per Boccaccio e Manzoni, giunge a Camus. Volgendo lo sguardo sui due primi scrittori, e ci perch il paragone tra questi due grandi della letteratura classica, che in maniera molto differente hanno descritto la stessa epidemia.Bisogna iniziare il confronto fra Tucidide e Lucrezio, due fra i rappresentanti pi illustri della letteratura classica.Per giungere a un buon confronto, bene contestualizzare i passi di entrambi gli scrittori allinterno delle loro opere: le Storie e il De rerum natura. Per Tucidide il discorso semplice: egli si propone di scrivere la storia della guerra del Peloponneso (dal 431 a. C. al 404 a. C., cio fino alla caduta di Atene. In realt, a causa della morte, giunge solo allautunno del 411 a. C.) e la pestilenza uno degli avvenimenti pi gravi della prima fase di quella guerra e ha le sue implicazioni nello sviluppo degli eventi. Dunque il motivo che spinge Tucidide a descrivere il flagello della peste puramente storico. Infatti nel testo tucidideo troviamo queste parole:Dica pure, riguardo a questo argomento, ognuno, medico o profano, in base alle proprie conoscenze, quale sia stata la probabile origine, e quali cause ritiene capaci di procurare un siffatto sconvolgimento; io descriver come (la pestilenza) si sia manifestata, ed esporr chiaramente quei sintomi dai quali la si possa riconoscere, essendone informati, se colpisse di nuovo, perch io stesso ho avuto la malattia e ho visto gli altri soffrirneTucidide, che ha sperimentato personalmente sulla propria pelle i sintomi della malattia, convinto che la storia sia (Tuc., I, 22, 4), desidera far diventare la sua opera utile ai posteri, perch questi possano in futuro riconoscere una tale epidemia e fare tesoro della sua esperienza. Il discorso per Lucrezio si presenta pi complesso. Non a caso ci troviamo davanti ad un “filosofo-poeta”. Innanzitutto il poema, forse, non si sarebbe dovuto concludere cos come noi ora lo leggiamo, ma, come preannuncia lo stesso Lucrezio nel V libro:“Dire, daltronde, che gli dei hanno voluto apprestare il meraviglioso mondo per gli uomini , e che , quindi, la loro ammirabile opera degna di tutte le nostre lodi, che bisogna crederla eterna e immortale, e che unempiet far vacillare fin dalle sue fondamenta questo edificio che dallantica saggezza dei Numi fu costruito per il genere umano e per leternit , denigrarlo a parole rovesciarlo da cima a fondo: tutte queste ragioni, e altre simili che si possono immaginare ,o Memmio , non sono che pura follia”. (vv. 145-155)con un lungo discorso con cui il poeta avrebbe dimostrato che le sedi degli dei sono sottili come il loro corpo (naturalmente ci ha fatto s che alcuni critici ritenessero incompiuto il poema).Perch Lucrezio, alla fine di unopera iniziata con immagini piene di luce, ha posto una descrizione cos tenebrosa? I critici hanno proposto risposte diverse: alcuni sostengono che il poeta abbia voluto concludere anche il VI libro, e quindi il poema, con un altro finale negativo; altri che questo finale sia la prova dellincapacit di Lucrezio di aderire completamente alla dottrina epicurea o della sua depressione. Originale, ma non in tutto condivisibile lipotesi avanzata da uno studioso francese, secondo il quale Il posto dato al racconto della peste nel poema non si potrebbe comprendere senza fare larga parte allinteresse letterario che Lucrezio ha trovato nel rivaleggiare con il suo modello greco, tenuto conto del fatto che Tucidide era diventato di moda verso quel tempo per opera di alcuni oratori della scuola attica.In realt il brano non deve essere considerato come a s stante, ma come parte di un discorso sviluppato in tutto il VI libro. Questultimo si apre con un elogio di Atene e di Epicuro, per poi passare alla descrizione dei fenomeni metereologici (il tuono, il fulmine, le nuvole, le piogge), che provocano negli uomini la paura di una punizione divina. Si passa poi ai fenomeni terrestri, quali i terremoti o i vulcani, e si giunge, infine, alla descrizione della peste, da intendere come una grandiosa esemplificazione di un ragionamento strettamente consequenziale, volta a dimostrare che gli uomini non devono aver paura perch, se non va temuta la morte (seconda diade), tanto meno vanno temuti i naturali sconvolgimenti e cataclismi di qualsiasi specie (terza diade). Temere turbarsi, e turbamento fonte di infelicit: insegnare alluomo a non turbarsi anche di fronte al cosmo lultima lezione morale del poemaPoste queste sostanziali differenze tra i due brani,
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